Interno felix

Olio su tela – 100×70 cm
Vedo non vedo. Il gioco serio della pittura di Marco Fulvi
Fare pittura oggi è prima di tutto un atto di fede. La generazione artistica nata intorno agli anni Zero si sta esprimendo di fatto quasi esclusivamente con media tecnologici, relegando in questo modo il più antico medium artistico ai margini dei linguaggi contemporanei.
Marco Fulvi appartiene anagraficamente a quella generazione di artisti che è invece cresciuta attraverso il colore e i pennelli e nonostante i tempi sembrano collocarlo fuori dal tempo, facendone di lui un perfetto anacronista, egli tuttora si sforza (giustamente) di rivendicare i diritti della pittura anche nel vivo della cosiddetta contemporaneità. D’altronde non si capisce perché vi siano degli artisti ma anche dei curatori e dei galleristi che la vorrebbero morta, quando invece proprio la pittura ha dimostrato la sua vitalità rinverdendo ogni stagione e arrivando pressoché intatta fino ai nostri giorni. Semmai, si potrebbe dire il contrario: tanta media art, termine con il quale si designano oggi i mezzi artistici di natura tecnologica (video, audio, installazioni multimediali) diventa dopo pochi anni obsoleta e richiede continue revisioni/riparazioni al fine di poter ancora funzionare e direi anche sopravvivere.
Marco Fulvi ha da sempre dipinto e io credo, per quanto lo conosca, che continuerà a farlo fino alla fine delle sua carriera. Ama la pittura nella sua essenza, quella fatta impastando i pigmenti. E’ un cultore del bel disegno con il quale delinea nitidamente i corpi sui quali poi interverrà con il colore. E’ attento alla prospettiva all’interno della quale inserisce i personaggi che popolano le sue tele. Studia attentamente le fonti luminose del quadro che investono vivificando le figure da lui dipinte scrupolosamente fino a restituire i minimi par-ticolari anatomici.
Nella serie presentata in mostra Fulvi è partito da uno dei soggetti classici della pittura: il modello nello studio. Un genere caro a tutta la pittura del primo Novecento e che trova, a mio avviso, in un artista della Scuola romana degli anni Trenta quale Guglielmo Janni, un sicuro punto di riferimento. Comune all’artista romano è infatti il tema della conturbante bellezza virile che viene celata attraverso il mascheramento. Ma anche il modo di dipingere i corpi nudi ha delle affinità molto sorprendenti. In questo ciclo di opere Fulvi non ha però solo mascherato il modello scelto per la sua ricerca ma egli stesso si è travestito assumendo le vesti di un gatto. Ne esce una piccola galleria di ritratti psicologici, nella quale entrambe le figure, quella del modello e quella del felino recitano i ruoli di protagonisti. Alle diverse pose assunte dal modello risponde con altrettante bilanciate posizioni il gatto/artista. In queste opere assistiamo in altre parole ad un gioco divertito delle parti condotto però attraverso il gioco serio della pittura.
Alberto Dambruoso
Vedo non vedo. Il gioco serio della pittura di Marco Fulvi
Fare pittura oggi è prima di tutto un atto di fede. La generazione artistica nata intorno agli anni Zero si sta esprimendo di fatto quasi esclusivamente con media tecnologici, relegando in questo modo il più antico medium artistico ai margini dei linguaggi contemporanei.
Marco Fulvi appartiene anagraficamente a quella generazione di artisti che è invece cresciuta attraverso il colore e i pennelli e nonostante i tempi sembrano collocarlo fuori dal tempo, facendone di lui un perfetto anacronista, egli tuttora si sforza (giustamente) di rivendicare i diritti della pittura anche nel vivo della cosiddetta contemporaneità. D’altronde non si capisce perché vi siano degli artisti ma anche dei curatori e dei galleristi che la vorrebbero morta, quando invece proprio la pittura ha dimostrato la sua vitalità rinverdendo ogni stagione e arrivando pressoché intatta fino ai nostri giorni. Semmai, si potrebbe dire il contrario: tanta media art, termine con il quale si designano oggi i mezzi artistici di natura tecnologica (video, audio, installazioni multimediali) diventa dopo pochi anni obsoleta e richiede continue revisioni/riparazioni al fine di poter ancora funzionare e direi anche sopravvivere.
Marco Fulvi ha da sempre dipinto e io credo, per quanto lo conosca, che continuerà a farlo fino alla fine delle sua carriera. Ama la pittura nella sua essenza, quella fatta impastando i pigmenti. E’ un cultore del bel disegno con il quale delinea nitidamente i corpi sui quali poi interverrà con il colore. E’ attento alla prospettiva all’interno della quale inserisce i personaggi che popolano le sue tele. Studia attentamente le fonti luminose del quadro che investono vivificando le figure da lui dipinte scrupolosamente fino a restituire i minimi par-ticolari anatomici.
Nella serie presentata in mostra Fulvi è partito da uno dei soggetti classici della pittura: il modello nello studio. Un genere caro a tutta la pittura del primo Novecento e che trova, a mio avviso, in un artista della Scuola romana degli anni Trenta quale Guglielmo Janni, un sicuro punto di riferimento. Comune all’artista romano è infatti il tema della conturbante bellezza virile che viene celata attraverso il mascheramento. Ma anche il modo di dipingere i corpi nudi ha delle affinità molto sorprendenti. In questo ciclo di opere Fulvi non ha però solo mascherato il modello scelto per la sua ricerca ma egli stesso si è travestito assumendo le vesti di un gatto. Ne esce una piccola galleria di ritratti psicologici, nella quale entrambe le figure, quella del modello e quella del felino recitano i ruoli di protagonisti. Alle diverse pose assunte dal modello risponde con altrettante bilanciate posizioni il gatto/artista. In queste opere assistiamo in altre parole ad un gioco divertito delle parti condotto però attraverso il gioco serio della pittura.
Alberto Dambruoso